La famiglia come luogo della libertà

La funzione della famiglia non può essere quella di un sempiterno porto sicuro. Tutt’altro. Per certi versi, la funzione della famiglia sufficientemente buona è quella di produrre una sana angoscia.

Angoscia e libertà

Certo, detta così, tale affermazione può suonare alquanto bizzarra, ma la sensazione di stranezza svanisce nel momento in cui consideriamo l’angoscia non come un sintomo, bensì come la condizione prima ed ineliminabile che anticipa la libertà a cui noi tutti aspiriamo. In effetti, se ci pensiamo, ogni qualvolta – in libertà – decidiamo di voler realizzare un’idea o intraprendere un progetto, sperimentiamo una condizione d’angoscia. Nel senso che nel momento in cui assumiamo l’onere della scelta, dobbiamo inevitabilmente accettare di non sapere questa, cosa determinerà, quali risultati produrrà. È come le storie d’amore, in cui i due amanti s’inoltrano in un ignoto, un movimento senza coordinate da cui non è possibile delineare aprioristicamente l’epilogo.

E allora ecco che l’angoscia non assume necessariamente un significato patogeno, ma diventa espressione del dubbio circa gli effetti delle nostre decisioni; è il non-sapere-cosa-sarà del nostro desiderio. E dunque quando sperimentiamo angoscia, in realtà sperimentiamo la nostra libertà. In questo senso, scrive Kierkegaard: “il concetto dell’angoscia (…) è completamente diverso da quello del timore e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato (…) l’angoscia è la realtà della libertà” (Kierkegaard S., 2007, p. 44).

L’esposizione al mondo

Se l’angoscia è una condizione ineliminabile, che per forza di cose dobbiamo assumere, vivere, sperimentare – a patto di considerarla non come sintomatologia, ma come sospensione delle certezze circa le conseguenze delle nostre azioni – la famiglia – come luogo di accesso alla libertà – non può esimersi dal compito di esporre il figlio alla stessa, al suo carattere inaggirabile.

È in fondo questa la libertà: non certo l’esclusione di un confine, di un ordine, quanto la possibilità di realizzare il proprio desiderio come vocazione. Rendere il figlio libero, vuol dire non obbligarlo a recitare una parte in una commedia che non ha scritto lui, quanto educarlo ad un sano fallimento: perché solo chi trasforma, converte lo sbaglio nel punto di rinsaldamento del proprio desiderio e non ne fa l’onta, la resa rispetto alla propria esistenza, può dirsi libero. È in effetti una delle criticità che il sistema-famiglia si trova a vivere di questi tempi: i genitori, desiderando più di tutto di essere amati dai loro figli che non di vedere realizzati i loro desideri, si trovano ad assumere la funzione di protettori perenni, scudi, barriere contro il Reale; con il solo risultato di forgiare una generazione spenta, dipendente ed impossibilitata a volgere lo sguardo al cielo, perché incapace di credere in se stessa.

Perdere il proprio frutto

Il dono più grande della famiglia, non può che essere quello di esporre il figlio al mondo, a ciò-che-è, all’inevitabilità dell’angoscia. Educarlo al fallimento per indurlo all’autorealizzazione. Il rischio educativo è sempre quello di un condizionamento, anche inconscio. Il trascinare il figlio all’interno di un progetto che non è suo, con la conseguente preclusione della sua libertà, ovvero della possibilità di scegliere senza particolari influenze il proprio futuro e i propri errori. In questo senso, Sartre diceva che quando i genitori hanno dei progetti sui propri figli, questi hanno dei destini che non sono mai felici (n.d.r.).

Funzione della famiglia, dunque, è quella di creare le condizioni: umidificare il terreno per la creazione di una nuova storia. Originale. Propria. Personale. Che non sia una mera replica, una copia della sceneggiatura familiare. Per far questo – per rendere il figlio Altro da ciò che già esiste – la famiglia deve “incoraggiare”, “alimentare” i rischi e le cadute del figlio. È da qui che nasce la singolarità di una vita. E per vederne la realizzazione, la famiglia deve accettare di perdere il proprio frutto. È uno degli insegnamenti di Nietzsche, quando ci dice che amare e tramontare “sono cose che si accordano da tempo immemorabile” (Nietzsche F., 2015, p. 122).

Bibliografia

  • Kierkegaard S., [1844], Il concetto dell’angoscia, a cura di C. Fabro, tr. it. SE, Milano, 2007.
  • Nietzsche F., [1885], Così parlò Zarathustra, tr. it. Mondadori, Milano, 2015.